E’ che oggi è una giornata un po’ triste, e ancora più triste che uno degli ultimi atti di questa tragedia che è stato il crollo del ponte Morandi, si stia svolgendo in silenzio.
Oggi gli sfollati possono rientrare in casa.
Due ore di tempo, 50 scatoloni da riempire.
Sembra un macabro gioco a premi.
E invece qui, si perde soltanto.
Un triage degli affetti, di testa e di cuore
Penso all’eccitazione che travolge quando si entra in una casa nuova, la sensazione che chiunque abbia messo su casa conosce: un nuovo inizio, l’idea che quel luogo sarà custode di ricordi, per lo più belli, almeno nelle intenzioni.
E allora.
Prendere i vestiti invernali, inizia il freddo tra poco.
Le coperte pesanti, le scarpe chiuse.
Il computer, i gioielli di famiglia, i giocattoli a cui tuo figlio è più affezionato e di cui ha dovuto fare a meno per tutti questi mesi. Tanto che forse, nemmeno se li ricorda più.
I libri, i CD, i vinili di tuo padre.
Le lenzuola, il corredo, il tuo abito da sposa.
Il servizio buono, te l’ha regalato tua zia, ma serve troppo tempo per imballarlo.
Le tende, le ha confezionate tua madre. Sono grigie di polvere ora, impossibili da smontare in sole due ore.
Lasci la mattonella scheggiata che non hai mai fatto riparare, e su cui inciampavi ogni notte, quando ti alzavi per andare in bagno.
Lasci le tacche sul muro, un centimetro alla volta, di ossa bambine che si allungano e segnano l’inesorabile passare del tempo.
Lasci quel divano dove hai pianto per ogni film d’amore e dove lui esultava per ogni gol del Genoa.
Lasci la credenza di tua nonna, le ombre di notte, che ti facevano paura da bambina.
Lasci il rumore della serratura che segnava il suo ritorno a casa ogni sera.
Lasci il ronzio del frigorifero, i mobili strisciati del vicino di sopra, il trillare del campanello.
Lasci l’angolo della finestra dove tuo figlio depositava i suo denti da latte, in attesa del topolino.
Lasci la sala piena di amici il sabato sera, il tavolo rotondo addobbato a festa il giorno di Natale.
Lasci le corde da stendere, piene di tutine stese di tuo figlio neonato.
Lasci l’odore lieve di cibo cucinato misto a sapone e quella fragranza indecifrabile. Quella che ti fa dire: sono a casa.
Lasci il parquet, che hai impiegato settimane a scegliere.
E la parete colorata dietro la testiera del letto. Lasci anche il letto, e le lenzuola abbinate ai cuscini e alla coperta appoggiata dalla tua parte.
Lasci le calamite sul frigorifero, ricordo dei tanti viaggi fatti insieme, e quel lampadario comprato in un mercatino a Lucca, quando ancora eravate fidanzati.
Lasci il tappeto seminato di Lego, la poltrona su cui hai allattato tuo figlio ogni notte, e la cameretta appena comprata, di cui ancora stai finendo di pagare le rate.
Lasci l’anta dell’armadio costellata di adesivi e il disegno fatto coi pennarelli indelebili da tuo figlio bambino, per cui lo avevi sgridato tanto.
Lasci gli abbracci serali, la ninna nanna bisbigliata all’orecchio, i mostri cacciati da sotto il letto.
Lasci la finestra spalancata nelle notti estive, e il ventilatore a soffitto che ronzava piano, conciliandoti il sonno.
Lasci il balcone, dove godevi del primo sole primaverile.
Lasci le domeniche invernali, passate a ciondolare per casa in pigiama.
Lasci la scrivania dei compiti, e quel tavolo dove una sera avete fatto l’amore, un po’ brilli, un po’ innamorati.
Lasci il termosifone difettoso, che perdeva sempre un po’ d’acqua. E quella macchia di vino, dietro il tavolo in cucina, ricordo di un Capodanno di tanti anni fa, e che non hai mai fatto reimbiancare.
Prendi qualche foto, sei ancora in tempo.
I libri a te cari, non tutti, che sono troppo pesanti.
Prendi i trucchi, qualche asciugamano, la lampada dello studio, quella di vetro verde, che ti aveva regalato lui, per darti un tono da intellettuale.
E poi il tempo scade.
E chiudi per l’ultima volta quella porta, intuendo all’istante, che quello che stai lasciando davvero, è la speranza di poter tornare tra quelle quattro mura.
Nuda, come una lumaca senza il suo guscio.
E’ un altro addio, quello di oggi. L’ennesimo funerale di Genova.
Una delle tante ferite aperte, che continuerà a fare male, quando il tempo girerà in maccaia, o quando ti verrà in mente di colpo, dov’è rimasto quella borsa di pelle marrone, che vorresti ricominciare ad usare, e invece non puoi più.